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Fibromialgia: ancora tante, troppe, criticità nell'avere una diagnosi

“Salve, sono Laura. Abito nella provincia di Torino, e convivo da molto tempo con dei dolori diffusi in tutto il corpo. Ho fatto il vostro test su internet ed è risultato che sono affetta da fibromialgia. Come posso convincere il mio medico a credermi?”. Questa è una delle ultime mail inviate da una paziente a Stefano Stisi, responsabile della Reumatologia dell’Ospedale Rummo di Benevento e presidente del CReI, il Collegio dei reumatologi italiani, che ha letto all’apertura dei lavori del primo congresso di reumatologia riabilitativa tenutosi il 10 febbraio a Firenze.

Sta qui, infatti, ancora oggi, uno dei nodi che accomuna chi soffre di un dolore che non ha ancora un nome. Non essere creduti, dal proprio curante, dai famigliari o nell’ambiente di lavoro, non fa che mettere benzina sul fuoco della rabbia.
 
«Il dolore è di chi lo percepisce, è soggettivo, è difficile da fare comprendere a chi non lo prova. Come si può allora convincere che la sofferenza con cui si sta facendo i conti ha un nome e si chiama fibromialgia, quando non c’è nessuna immagine di laboratorio alterata e tutti gli indici di flogosi e di autoimmunità sono nella norma? Avremmo bisogno di quell’indicatore quasi ideale, rivelatore, come lo è la glicemia per chi ha il diabete», sostiene Stisi. «Oggi, rispetto agli anni ’90 dove la diagnosi di fibromialgia si faceva se dei 18 tender points individuati 11 risultavano dolenti alla digitopressione, i criteri diagnostici sono cambiati. Pur rimanendo fondamentale l’esame obiettivo del medico, si può dire che alla diagnosi si arriva per esclusione, basandosi sull’anamnesi e sulla storia caratteristica dei pazienti che ci raccontano di avere un dolore dappertutto. Se alle domande che sottoponiamo loro la risposta è positiva, la diagnosi è quasi già fatta».
 
L’ultimo Expert Meeting che ha riunito esperti reumatologi da tutto il mondo ha definito la fibromialgia come «una sindrome da sensibilizzazione centrale, dove vi è la disfunzione di alcuni circuiti neuronali che presiedono alla percezione del dolore. Debolezza, stanchezza, parestesie - spesso le persone lamentano parestesie alle mani, si svegliano e dicono “non sono più proprietario delle mie mani” -, astenia caratterizzano questa sindrome che colpisce il 2-3% della popolazione, prevalentemente femminile. C’è inoltre un’enorme comorbilità psichica, disturbi del sonno, mai ristoratore e spesso interrotto nella seconda parte del riposo notturno, la tendenza a connotare il dolore come catastrofico, e il vivere di questi malati spesso viene narrato come fortemente stressante e in continua allerta, rivelando uno stile di vita perlopiù sedentario. Di solito raccontano anche di una sintomatologia di colon irritabile, dispepsia, cefalea muscolo tensiva, ossia di tutte quelle disfunzioni caratteristiche degli stati di tensione e di ansia», ricorda il presidente del CReI.
 
Questi segni, però, non sono tutto ciò a cui bisogna porre attenzione. «Raccogliere la storia psichica è fondamentale. Chi è affetto da fibromialgia, in passato ha sofferto di una depressione maggiore nel 69% dei casi, o di un disturbo di panico il 17% delle volte, o ancora di una fobia nel 3%. Si tratta cioè di pazienti che prima di presentare una patologia dolorosa hanno avuto una storia psicopatologica che il curante deve conoscere. Perché il dolore cronico diffuso, che coinvolge una persona su cinque accomuna anche chi ha una malattia neoplastica, una forma virale o un deficit di vitamina D, per esempio. La sindrome fibromialgica è solo la punta di questo grande iceberg che si chiama dolore cronico diffuso. E la si può vedere, insomma, come l’anello di congiunzione tra algos, dolore, e pathos, sofferenza», sostiene Stefano Stisi.  
 
Un altro aspetto che è emerso all’interno del primo congresso di medicina riabilitativa fiorentino è che la  fibromialgia è la soluzione dolorosa di condizioni psicofisiche che hanno radici lontane e a cui a volte si tende a dare sollievo in modo passivo, con l’assunzione di un farmaco. Ma è un’attesa errata e illusoria, dicono gli esperti: «La paziente che riesce, aiutata dal medico, a comprenderne l'origine e la natura della sindrome fibromialgica, ha la massima possibilità di uscirne se interpreta la sua condizione come una opportunità di cambiamento. Via, allora, la sedentarietà, via gli eterni conflitti interiori irrisolti, via l'immobilismo decisionale. La vita ci costringe a cambiare e ci chiama al cambiamento facendoci scegliere nuovi stili di vita, dandoci un'altra via di crescita. È una nuova vita quella all'orizzonte del cambiamento. Non più passiva».
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