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Polimialgia reumatica in pazienti con proteine fase acuta nella norma: significato e implicazioni della terapia. Intervista al dott. Ciro Manzo

Il lavoro recentemente pubblicato su Clinical and Experimental Rheumatology (1) da una equipe di ricercatori olandesi ricorda, correttamente, di aver confermato osservazioni provenienti da altri studi condotti sull’argomento negli anni precedenti.
All’inizio del 2019, uno studio pubblicato su Rheumatology da un ricercatore italiano e da un collega polacco, ha avanzato per primo l’ipotesi di un fenotipo distinto della polimialgia reumatica (PMR) caratterizzato da livelli di proteine di fase acuta nella norma (2).

Uno dei due estensori di questo lavoro è il dott. Ciro Manzo (Reumatologo presso il Distretto Sanitario 59, S. Agnello, Napoli)  e a lui abbiamo rivolto alcune domande per comprendere le novità emerse dalla pubblicazione di quell’editoriale e le ripercussioni sulla diagnosi e la terapia di questi pazienti.

Dottor Manzo, in cosa assomigliano lo studio olandese di prossima pubblicazione su Clinical and Experimental Rheumatology con le vostre osservazioni e quali le novità emerse rispetto al vostro studio?
I due studi sono simili nelle conclusioni, evidenziando in modo chiaro e inequivocabile alla classe medica l’esistenza di un subset di pazienti con PMR aventi valori degli indici di flogosi acuta (APR, prevalentemente VES e CRP) nella norma al baseline, ovvero prima di iniziare la terapia cortisonica che, notoriamente, normalizza o abbassa in maniera significativa i valori di tali indici in questi pazienti.

Pur essendo entrambi degli studi retrospettivi di coorte, i due lavori, comunque, presentano ovviamente delle differenze. La differenza più significativa e rilevante non può che essere la differente percentuale di pazienti con PMR e APR nella norma al basale rilevata nei due studi: nello studio olandese, ben il 14% dei pazienti arruolati presenta valori normali di VES e CRP al baseline, mentre nel nostro studio la percentuale è significativamente più bassa, attestandosi appena all’1,5%.

La differenza è ancora più significativa se si considera che i due studi hanno lavorato su casistiche numericamente quasi identiche (454 casi nello studio olandese vs. 460 casi nello studio italo-polacco).

Perché è importante considerare i pazienti con PMR e livelli di APR nella norma come un fenotipo distinto? Differiscono in base ad alcuni fattori come, ad esempio, l’età e il sesso?
L’importanza di riconoscere o di pensare nella pratica clinica alla possibilità che il paziente che stiamo visitando o del quale stiamo raccogliendo l’anamnesi possa essere affetto da PMR, che è una malattia tipicamente infiammatoria, malgrado che gli APR siano nella norma, è facilmente intuibile: significa intercettare una giusta diagnosi e, di conseguenza, impostare una corretta terapia.

Per quanto riguarda le differenze rispetto al sesso, sia lo studio olandese che il nostro studio non ha sostanzialmente evidenziato differenze rispetto a quanto avviene nella forma “classica” o “tipica” di PMR, ovvero quella caratterizzata da valori elevati di VES o di CRP al baseline.

Passando, invece, al “fattore età”, i dati sono ancora sub iudice: si tende a ritenere che questo subset di polimialgia tenda a colpire (e quindi a manifestarsi) individui più giovani (ma sempre di età >50 anni) rispetto alla forma tipica di PMR. Si parla, però, di dati provenienti da piccole casistiche, molti dei quali datati e che quindi meritano una conferma.

Che ripercussioni ci sono sul fronte della diagnosi dall’affermazione di un fenotipo distinto di PMR?
Le ripercussioni sono facilmente intuibili: nel momento in cui maturo l’idea o non escludo  la possibilità che il paziente possa essere affetto da PMR malgrado VES e CRP siano nella norma, ciò mi consente di fare una diagnosi giusta e di impostare una terapia appropriata – terapia che, come tutti i cultori della materia sanno, si basa sull’impiego di cortisonici a dosaggio medio-basso.

Il dato è tanto più importante nella pratica clinica perché la PMR è una malattia fortemente invalidante, con gravi ripercussioni sulle attività della vita quotidiana che dipendono dal cingolo pelvico e da quello scapolare, che colpisce prevalentemente individui anziani e che tende a comparire all’improvviso ma che, con la stessa rapidità con cui compare, altrettanto rapidamente, di solito, viene mandata in remissione grazie alla terapia cortisonica.

Fatta questa premessa, come si pone la diagnosi di polimialgia reumatica con indici di flogosi nella norma al baseline?
Quello della diagnosi di questo fenotipo di PMR è un tema molto delicato perché tutti i criteri diagnostici e classificativi a partire dal primo, proposto da Bird nel 1979 (3), pongono valori elevati di VES e di CRP come uno dei criteri necessari e richiesti per la diagnosi o la classificazione della polimialgia.

Gli ultimi criteri validati, attualmente disponibili, proposti nel 2012 dal gruppo EULAR-ACR (4), pongono come pre-requisito diagnostico classificativo valori elevati di VES o di CRP.

Ne consegue che, se il medico si rifà ai criteri classificativi o diagnostici esistenti in letteratura, sarà portato ad escludere concettualmente questa possibilità.
Lo studio del gruppo olandese, però, confermando dati che avevamo già proposto all’attenzione della classe medica nel 2019, dice che questa impostazione concettuale è verosimilmente da rivedere.

Il fatto che, nel nostro studio, l’1% dei 460 individui facenti parte della casistica esprimesse fenotipicamente un subset di pazienti con PMR a fronte di un 14% su 454 nello studio olandese, suggerisce come ci si trovi  in presenza di un subset niente affatto eccezionale. La classe medica, quindi, dovrebbe rivalutare questa possibilità.

In conclusione, e alla luce della conoscenze attuali, che ipotesi fisiopatologica si può avanzare sullo sviluppo di PMR in pazienti con livelli di APR nella norma?
Allo stato attuale delle conoscenze, non si può fare altro che avanzare delle ipotesi a livello speculativo e alla luce dei dati finora disponibili.

Questo vale sia per la forma “tipica” di PMR - la cui eziologia è sconosciuta e la cui patogenesi è a tutt’oggi dibattuta - sia, a maggior ragione, per questo specifico subset di malattia - proprio perché questo fenotipo di PMR sta emergendo in maniera costante e preponderante all’attenzione della classe medica solo negli ultimi anni.

Sull’ultimo numero della rivista Reumatologia (5), organo ufficiale della Società Polacca di Reumatologia, abbiamo voluto proporre un’ipotesi patogenetica sullo sviluppo di PMR in pazienti con APR nella norma al baseline.

Secondo questa ipotesi sulla quale stiamo ragionando, riteniamo possibile che i pazienti appartenenti a questo subset di malattia abbiano un problema che riguarda i cosiddetti checkpoint, ovvero quelle molecole (almeno tre identificate in maniera chiara) che hanno un ruolo fondamentale nella regolazione della risposta immunitaria tra la massa tumorale della cellula cancerosa e i linfociti T o le cellule che presentano l’antigene del corpo umano.

Esistono, infatti, delle molecole chiamate “checkpoint inhibitors”, che vanno ad inibire queste molecole e che, dal 2011, la Fda  ha riconosciuto come terapia di base o di supporto in un numero progressivamente crescente di neoplasie. Il melanoma in fase metastatica e avanzata è stato il primo tumore ad essere stato trattato con questi inibitori, ma il numero di neoplasie maligne in cui viene posta l’indicazione di questi farmaci sta aumentando progressivamente.

Il dato da cui siamo partiti è stato questo: in letteratura sono state descritte, soprattutto negli ultimi anni, diversi casi di polimialgia insorti in corso di terapia con questi farmaci.

Uno studio di farmacovigilanza, pubblicato nel 2018 su Lancet Oncology (6), ha evidenziato come nei pazienti neoplastici che fanno la terapia con questi farmaci vi sia un rischio fino a 5 volte superiore di sviluppare una PMR rispetto ai pazienti con lo stesso tipo di cancro che non fanno terapia con checkpoint inibitori.

In conclusione, è possibile che questi checkpoint possano avere un ruolo in questo subset di pazienti polimialgici. Va però sottolineato come la nostra sia solo un’ipotesi meramente speculativa che, ovviamente, deve passare il vaglio di dimostrazioni scientifiche e dati oggettivi.

Nicola Casella

Bibliografia
1)    Marsman DE et al. Polymyalgia rheumatica patients with and without elevated baseline acutephase reactants: distinct subgroups of polymyalgia rheumatica. Clinical and Experimental Rheumatology 2020; 38: 000-000
Leggi


2)    Manzo C et al. Polymyalgia Rheumatica  With  Normal  Values  of  Both  Erythrocyte  Sedimentation  Rate  and  C-reactive  Protein  Concentration  at  the  Time  of  Diagnosis.  Rheumatology  (Oxford)  2019;  5:  921-923,  DOI:  10.1093/rheumatology/key431.
Leggi

3)    Bird HA et al. An evaluation of criteria for polymyalgia rheumatica. Ann Rheum Dis. 1979 Oct;38(5):434-9.doi: 10.1136/ard.38.5.434.
Leggi

4)    Dasgupta B et al. 2012 provisional classification criteria for polymyalgia rheumatica: a European League Against Rheumatism/American College of Rheumatology collaborative initiative. Ann Rheum Dis 2012;71:484–492. doi:10.1136/annrheumdis-2011-200329
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5)    Manzo C et al. Polymyalgia rheumatica with normal inflammatory indices at the time of diagnosis: can we just move a step forward? Reumatologia 2020; 58, 3: 184–186DOI: https://doi.org/10.5114/reum.2020.96549
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6)    Salem JE et al. Cardiovscular Toxici-ties Associated With Immune Checkpoint Inhibitors: An Obser-vational, Retrospective, Pharmacovigilance Study. Lancet Oncol 2018; 19: 1579-1589, DOI: 10.1016/S1470-2045(18)30608-9.
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