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Proteina C reattiva, biomarker di risposta precoce nell'AR

La proteina C reattiva, uno dei più utilizzati indici di flogosi, sembra poter predire la risposta al trattamento con infliximab associato a metotrexato. Questa scoperta ci arriva dall’analisi post hoc di dati raccolti nel ‘real world’.

Pubblicata sull’ultimo numero della rivista italiana di fama internazionale Clinical and Experimental Rheumatology, l’analisi post hoc dello studio osservazionale REMARK (1) ci offre una nuova evidenza clinica su un tema che ormai davamo per assodato. E’ senz’altro questo il valore aggiunto degli studi osservazionali, che per definizione mirano a osservare la popolazione oggetto dello studio nella pratica clinica e da prospettive diverse.

I pazienti dello studio REMARK, affetti da artrite reumatoide (AR) e naïve all’infliximab (IFX), ricevevano 3 mg/kg dell’inibitore del fattore di necrosi tumorale α (anti-TNF) in associazione a metotrexato (MTX). Lo studio è durato per 14 settimane e la risposta al trattamento è stata valutata in 3 sottogruppi: (i) pazienti con durata di malattia minore di 1 anno, naïve agli anti-TNF; (ii) pazienti con durata di malattia maggiore o uguale ad 1 anno, naïve agli anti-TNF; (iii) pazienti intolleranti o che non avevano risposto in passato ad un anti-TNF.

Il trattamento con infliximab è generalmente caratterizzato da una serie di infusioni di 3 mg/kg. In fase iniziale le infusioni sono somministrate con maggior frequenza, dopo 2 e poi 6 settimane dalla prima. La dose di mantenimento è invece una infusione ogni 8 settimane.

In queste prime settimane di trattamento “sarebbe utile avere predittori più chiari di risposta precoce che aiutino ad identificare i pazienti maggiormente predisposti a raggiungere una buona risposta con un trattamento continuo e quelli che potrebbero necessitare di un aggiustamento della dose”, scrivono gli autori per spiegare le ragioni dell’analisi.
In questa analisi i profili di cinetica della proteina C reattiva (PCR) sono stati analizzati in base alla risposta EULAR (buona, moderata o non responder). Stesso approccio è stato poi replicato sui dati dello studio ASPIRE per validarne i risultati.

La popolazione valutabile in termini di efficacia consisteva di 662 pazienti il cui valore mediano del disease activity score su 28 articolazioni (DAS28) migliorava dal baseline alla 14esima settimana di trattamento, passando da 5,2 a 3,6 (p<0,0001).

Inoltre, indipendentemente dal sottogruppo di appartenenza, la maggior parte dei pazienti inclusi nello studio avevano una risposta EULAR buona o moderata alle settimane 2 (64,9%), 6 (74,1%) e 14 (73,6%).

Suddividendo i pazienti in base al sottogruppo di appartenenza, i ricercatori non hanno osservato differenze statisticamente significative in termini di DAS28, conta articolare e indici di flogosi. Le riacutizzazioni della  malattia si sono verificate nel 16,2% dei pazienti.

Questo il dato più originale: i livelli di PCR si riducevano in maniera pronunciata dopo 2 settimane dall’inizio del trattamento, ma i pazienti che non avevano risposto alla terapia alla settimana 14 mostravano già nelle settimane precedenti (settimana 6) e alla settimana 14 un nuovo aumento della PCR.

Questo pattern di comportamento della PCR era stato replicato dagli stessi autori sui dati dello studio ASPIRE, in maniera indipendente.
I due studi erano comparabili anche sotto il profilo della tollerabilità e coerenti con il ben noto profilo di rischio di infliximab.
“Concentrazioni elevate di proteina C reattiva (PCR) prima del trattamento hanno mostrato di correlare con bassi livelli minimi medi di infliximab alla 14esima settimana di trattamento, suggerendo che la PCR potrebbe essere utilizzata come biomarcatore per identificare i pazienti che possono beneficiare di un aumento della dose (2)”, precisano gli autori in riferimento ad un precedente lavoro del 2005 che valutava proprio la correlazione fra PCR e livelli sierici di infliximab.

La perdita di risposta e l’aumento della PCR coincidevano con il tempo in cui aumentavano gli intervalli di somministrazione di infliximab, suggerendo che la perdita di risposta può essere spiegata dalla riduzione della frequenza della somministrazione piuttosto che dalle fluttuazioni dell’attività di malattia, specialmente in considerazione del rapido miglioramento del DAS28 osservato a seguito dell’inizio del trattamento con infliximab, aggiungono gli autori.

“Nella pratica clinica i medici alcune volte osservano che i pazienti traggono beneficio dal trattamento per almeno 6 settimane dall’infusione di infliximab, ma peggiorano durante le due settimane precedenti l’infusione successiva”, afferma il Prof. Rene Westhovens dell’Università di Leuven (Belgio), primo autore del lavoro, suggerendo che “in questi casi, un biomarcatore che identifichi quei pazienti che potrebbero beneficiare dall’aumento della dose di infliximab o dall’aumento della frequenza delle infusioni potrebbe essere uno strumento prezioso per i medici”.
Punto di forza dello studio è senz’altro l’aver replicato l’analisi in due popolazioni di pazienti indipendenti, validando così il pattern di andamento della PCR che si associa con la mancata risposta al trattamento con infliximab.

“Complessivamente, i nostri risultati confermano che il trattamento dell’AR con infliximab e metotrexato nella pratica clinica porta ad una riduzione dell’attività di malattia come determinato attraverso il DAS28, la risposta EULAR ed il basso tasso di riacutizzazioni”, affermano gli autori in conclusione del lavoro, lasciando la comunità scientifica con l’auspicio che siano a breve condotti nuovi studi “necessari per confermare se il pattern di variazione della PCR distintivo  trovato nei non-responder possa essere utile nel guidare prospetticamente l’ottimizzazione della dose”.

Francesca Sernissi


1.    Westhovens R, van Vollenhoven RF, Boumpas DT, et al. The early clinical course of infliximab treatment in rheumatoid arthritis: results from the REMARK  observational study. Clin Exp Rheumatol. 2014 May-Jun;32(3):315-23.

2.    Wolbink GJ, Voskuyl AE, Lems WF et al.: Relationship between serum trough infliximab levels, pretreatment C reactive protein levels, and clinical response to infliximab treatment in patients with rheumatoid arthritis. Ann Rheum Dis 2005; 64: 704-7.


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